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Aborto e 194, le menzogne di Emma Bonino

emma bonino la nuova bussola quotidiana tommaso scandroglio May 27, 2023

di Tommaso Scandroglio

In un editoriale per l’Unità, la leader di Più Europa afferma una serie di falsità e luoghi comuni sulla genesi e l’attuazione della 194, dal numero di aborti agli obiettori, fino alle pillole abortive. Affermazioni smentite dalla (triste) realtà e dai dati del Ministero della Salute.

Per gli abortisti il numero di aborti non è mai sufficiente. Emma Bonino, famigerata per aver provocato innumerevoli aborti con la pompa della bicicletta prima del varo della 194, ha vergato un editoriale per l’Unità (sì, esiste ancora) dal titolo “L’aborto di nascosto, così iniziò la mia lotta: nessuna donna avrebbe più dovuto subire quella umiliazione” in occasione del 45° nefasto compleanno della legge 194, nata il 22 maggio del 1978.

L’editoriale, come era da aspettarsi, è infarcito di molti luoghi comuni e falsità. La prima spunta già alla riga iniziale laddove la leader di Più Europa scrive: con la 194 “veniva data libertà di scelta per tutte le donne italiane, pur tra molte limitazioni e compromessi”. E, di grazia, quali sarebbero le limitazioni e i compromessi per accedere all’aborto presenti nella 194? Fino al 90° giorno qualsiasi motivo è valido per abortire e le alternative all’aborto che dovrebbero essere suggerite alla donna rimangono sempre lettera morta. Dopo il 90° giorno le limitazioni sono di lievissima entità: si può abortire sempre, ma se il feto è capace di sopravvivere autonomamente si può abortire solo se la vita della donna è in pericolo e il medico deve far di tutto per salvare la vita del nascituro.

Continua la Bonino: “Con la legge 194 si poneva fine a interruzioni di gravidanza clandestine operate con ferri da calza e altri metodi improvvisati e rudimentali da mammane, che provocavano emorragie che mettevano a rischio la salute e la stessa vita di molte donne”. Se abortire, nella maggior parte dei casi, era reato, è ovvio che gli aborti avvenivano in clandestinità e chi voleva commettere quell’illecito si assumeva anche il rischio di attentare alla propria vita. Ottimo deterrente per quel tipo di reato. Due note a piè di pagina. La prima: gli aborti clandestini ci sono anche oggi, vigente la 194. La seconda: la Bonino teme le emorragie causate dall’aborto? Si batta allora per l’abolizione della RU486 che provoca spesso gravi emorragie.

La Bonino così prosegue: la 194 “aveva iniziato a funzionare, abbassando il numero di interruzioni di gravidanza”. Falso: gli aborti iniziarono subito a lievitare arrivando nel 1982 a più di 234.000 (fonte Ministero della Salute, p. 3), quando nel 1979 erano stati meno di 188.000. Dopo il 1982 gli aborti iniziarono a scendere, ma non grazie alla legge. Infatti appare intuitivo che, laddove una legge depenalizza una condotta, il numero di persone che assumerà quella condotta aumenterà esponenzialmente. Gli aborti chirurgici diminuirono e continuano a diminuire tuttora, nonostante la depenalizzazione, per tre motivi: l’inverno demografico (meno donne in età fertili, meno concepimenti, meno aborti); l’aumento dell’infertilità e sterilità nella popolazione italiana; la migrazione dall’aborto chirurgico a quello chimico, ossia le famigerate pillole abortive.

Poi la Bonino lamenta che “adesso invece siamo ridotti che abbiamo una legge di fatto non applicata” perché ci sono gli obiettori. Conclusione: “Diventa impossibile per molte donne abortire legalmente, se non spostandosi, se possono, da una regione all’altra”. Una domanda: in 45 anni di applicazione della 194, quante sono le donne che hanno chiesto di abortire e che non sono state soddisfatte? Zero. E infatti, nel capitolo intitolato “Offerta del servizio IVG e diritto all’obiezione di coscienza degli operatori: numero medio settimanale di IVG effettuate da ogni ginecologo non obiettore” presente nell’ultima Relazione del Ministero della Salute sullo stato di attuazione della 194, in riferimento all’anno 2020, possiamo leggere che “il numero di IVG per ogni ginecologo non obiettore è in media a livello nazionale pari a 1,0 IVG a settimana, dato in leggera diminuzione. A livello regionale […] il dato più alto si registra in Molise, con 2,9 IVG settimanali in media. Eventuali problemi nell’accesso al percorso IVG potrebbero essere riconducibili ad una inadeguata organizzazione territoriale” (p. 59). E nelle precedenti relazioni si potevano leggere dati simili. E dunque attualmente ci sono così tanti aborti che il medico abortista compie un aborto a settimana, massimo tre se il medico opera in Molise: la narrazione che vede i medici soccombere di fronte alle innumerevoli richieste di aborti a causa degli obiettori è quindi falsa. Inoltre, se ci sono ritardi nel praticare gli aborti - e noi speriamo che ci siano - non dipende dal numero di obiettori ma dall’organizzazione dell’ospedale.

Come caso paradigmatico per provare che l’obiezione di coscienza impedisce di abortire la Bonino cita le Marche e così scrive: “Su 17 strutture sanitarie, 12 sono punti per l’interruzione di gravidanza. In una non si pratica l’aborto (Fermo) e nelle altre quattro non ci sono ginecologi non obiettori. Quattro su dodici hanno più dell’80 per cento di ginecologi obiettori”. I dati tirati fuori dalla Bonino contraddicono quelli della Relazione ministeriale, la quale racconta un altro scenario: per l’anno 2020 il numero di “stabilimenti in cui si pratica l’IVG” sono il 92,9% del totale nelle Marche, addirittura al secondo posto dopo la Valle d’Aosta. Inoltre il numero di “stabilimenti IVG per 100.000 donne in età fertile” è pari a 4,3, quando la media nazionale è 2,9 (cfr. p. 58). Dunque, il servizio abortivo purtroppo è assai capillare nelle Marche. In questa regione ogni medico abortista compie 0,8 aborti a settimana e il carico di lavoro massimo registrato in una singola struttura è di 2,2 aborti a settimana (cfr. p. 59). Sempre troppi dal punto di vista morale, ma pochissimi dal punto di vista organizzativo. Infine, il personale obiettore (cfr. tabella n. 28) è pari al 70% tra i ginecologi (dato superiore a quello nazionale che è del 64%) e al 42% tra gli anestesisti (inferiore al dato nazionale che è del 44%). Siamo in media, dunque.

Sempre la Bonino ci informa che a suo dire “l’utilizzo della pillola abortiva Ru486, è stato ostacolato per molto tempo. Anche oggi non viene utilizzato in modo sistematico. […] La media nazionale [di utilizzo] è al 24-25 per cento”. Pare che la Bonino viva in un altro Paese. Ricordiamo che a motivo di una Circolare dell’allora ministro Speranza, dall’agosto del 2020, come ricorda la Relazione ministeriale di cui sopra, “in Italia l’aborto farmacologico non deve più essere effettuato solo entro la settima settimana di gestazione, bensì entro 9 settimane compiute di età gestazionale. […] Inoltre, la procedura non richiede più l’ospedalizzazione ma può essere eseguita in day hospital o presso strutture ambulatoriali pubbliche […] nonché presso i Consultori familiari” (p. 14). Dunque la RU486 può essere usata in uno spettro di tempo maggiore, ha meno vincoli ospedalieri e si trova ovunque. Inoltre, il 35% degli aborti oggi è praticato con la RU486 (p. 7), ben superiore al 25% citato dalla Bonino. La Relazione poi sottolinea che dopo la pubblicazione della Circolare di cui sopra “si è osservato un aumento della percentuale di IVG effettuate con metodo farmacologico” (ibidem). La leader radicale cita poi ancora le Marche, dove si utilizzerebbe la Ru solo nel 13% dei casi. Ma la Relazione ministeriale dice altro: la Ru nelle Marche è stata usata nel 17,2% dei casi (cfr. tabella n. 25) e si aggiunge che “il confronto nel tempo evidenzia un incremento continuo dell’uso del Mifepristone e delle prostaglandine e il loro esteso utilizzo ormai in tutte le Regioni” (p. 52).

Ma la Bonino, di fronte a questi dati inoppugnabili, ha l’ardire di affermare: “Nonostante questi due enormi limiti fondamentali dell’obiezione di coscienza e del rifiuto dell’aborto farmacologico, che andrebbero superati, la legge ha funzionato”. Però poco prima, in modo contraddittorio, appuntava che “la norma viene applicata infatti solo in Emilia Romagna, Toscana, e Puglia”. Ovviamente non porta nessun dato a suffragio di questa affermazione e infatti i dati del Ministero della Salute ci dicono invece che, ahinoi, la norma è applicata ovunque e senza problemi.

 

 

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