Il giudizio di Dante su Celestino è equo e imparziale?
Dec 30, 2022di Francesco Lamendola
Il giudizio di Dante su Pietro da Morrone, ossia papa Celestino V, che fu papa per pochi mesi, dal 29 agosto al 13 dicembre 1294, in un momento travagliatissimo nella storia della Chiesa cattolica, suscita e ha sempre suscitato – è inutile negarlo - perplessità, discussioni, controversie, e in pratica ha spaccato gli ammiratori dell’Alighieri “giudice” delle anime trapassate in due schiere pressoché irreconciliabili: i critici e i difensori di quella condanna. I primi sciorinano le buone ragioni del santo eremita benedettino, il quale, dopo aver condotto una vita spirituale estremamente ascetica e ritirata, si era recato a piedi in Francia, al Concilio di Lione, per supplicare, e ottenere, l’annullamento del decreto di soppressione dell’ordine religioso da lui fondato, un ramo dei benedettini che in seguito prenderà il nome di celestini.
Era già da anni in fama di santità, ammirato e rispettato da tutti per la purezza e la severità della sua vita ascetica, che si svolgeva riducendo al massimo i contatti sociali con chiunque, allorché, alla morte di papa Niccolò IV, nel 1292, si aprì un conclave estremamente travagliato, dato che i cardinali non riuscivano a mettersi d’accordo neppure sulla località ove riunirsi, mentre un’epidemia di peste si abbatteva sull’Italia e provocava la morte di un cardinale francese, facendo scendere a undici gli elettori. Ne era seguita una ulteriore pausa di oltre un anno, al termine della quale venne infine scelta Perugia come sede del conclave. Passarono parecchi altri mesi, durante i quali la situazione fu ulteriormente complicata dalla complesse e delicate vicende politiche legate alla fine della Guerra del Vespro e ai faticosi tentativo di pacificazione fra gli Angiò e gli Aragonesi. A un certo punto il re di Napoli Carlo d’Angiò, nel goffo tentativo di guadagnarsi il sostegno diplomatico della Curia, ebbe l’ardire di presentarsi, insieme al figlio, nella sala del Sacro Collegio onde sollecitare l’elezione del nuovo Papa, ma riuscì solo a scandalizzare tutti e provocare una tale reazione per cui dovette allontanarsi in gran fretta.
Solo allora, e dopo nuove, aspre discussioni, i cardinali si resero conto che un ulteriore indugio sarebbe stato fatale al prestigio e all’effettiva autorità del Papato, e inaspettatamente diressero i loro voti verso lo stesso Pietro da Morrone, il quale andava predicendo gravi calamità pubbliche se lo scandalo della mancata elezione si fosse ulteriormente prolungato. Egli era circondato, per la sua totale estraneità ai giochi di potere, dalla stima e dalla considerazione generale, oltre che per la sua irreprensibilità, la sua alta spiritualità e l’assenza di qualunque forma d’interesse per i beni materiali; ma proprio per tali aspetti d’ingenuità e di candore, oltre al fatto che non era porporato, alcuni esitavano a far convergere i voti su di lui. Finalmente gli indugi vennero superati e fra Pietro, col nome di Celestino V, venne eletto regolarmente dal conclave il 5 luglio 1994, dopo ben due anni e tre mesi di vacanza.
Pietro Angelerio (questo era il suo nome completo), nel frattempo , non sapeva nulla di ciò che il conclave aveva deciso; lo seppe, con enorme stupore, quando tre ecclesiastici si recarono personalmente al suo romitorio sul Monte Morrone ed egli, dopo essersi raccolto profondamente in preghiera, dichiarò di accettare. indi convocò il Sacro Collegio nella città dell’Aquila e, scortato da re Roberto d’Angiò, venne proclamato ufficialmente, nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, il 29 agosto. Dopo di che, invece di portarsi a Roma, fissò la sua residenza nella Curia del Castel Nuovo di Napoli, il che ne faceva simbolicamente, ma anche di fatto, poco più di un burattino nelle mani dell’ambizioso e spregiudicato re angioino. Può essere che, nei suoi sogni di rigenerazione morale, Roma fosse ormai troppo compromessa con l’ordine modano; oppure che, conscio della sua totale inesperienza politica, preferisse appoggiarsi il più possibile a un sovrano, che peraltro giudicava un buon figlio della Santa Chiesa, forse senza rendersi pienamente conto delle gravi limitazioni che in tal modo venivano ad incombere su di lui e sulle sue possibilità di azione libera e autonoma.
Il 13 dicembre, improvvisamente, Celestino formalizzava le proprie dimissioni, essendosi convinto di essere assolutamente sprovvisto delle qualità necessarie, anche dì tipo politico, per reggere adeguatamente l’altissimo incarico. Il 24 dicembre, la vigilia di Natale, il Conclave riunito in Castel Nuovo elesse Benedetto Caetani, esperto di discipline giuridiche e forse il suo maggior consigliere nel senso della rinuncia, cha assunse il nome di Bonifacio VIII e si è guadagnato una così cattiva fama, probabilmente immeritata, da parte di Dante. Timoroso che il “partito francese” dei cardinali (quello Che di lì a pochi anni avrebbe trasferito la sede pontificia ad Avignone) meritasse di far rieleggere Celestino per mettere lui stesso nella scomodissima posizione di anti-papa, il Caetani fece stringere la sorveglianza attorno all’ex pontefice, spingendosi forse fino a una forma di vera e propria carcerazione.
Pietro da Morrone reagì tentando la fuga per rientrare nel suo eremo sul Morrone e da lì Vieste sul Gargano, sperando di trovare una nave di passaggio che lo conducesse ancora più lontano, in Grecia (il che, stante lo scisma del 1054, avrebbe portato al calor bianco le già difficili relazioni fra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli). Ma raggiunto e arrestato dagli uomini del re di Napoli, venne rinchiuso nella rocca di Fumone (Presso Frosinone), dove si spense il 19 maggio 1296, dopo aver tentato per l’ultima volta di giungere a un chiarimento pacifico con il suo successore. Circolarono da subito voci relative ad un suo assassinio, ma non esistono prove in tal senso: e la sua età avanzata (87 anni) e le non buone condizioni di salute possono spiegare da sole il crollo improvviso.
Meno di venti anni dopo, il 5 magio 1313, il Papa Clemente V lo avrebbe fatto canonizzare.
Questa, per sommi capi, la vicenda storica. Ci resta da esprimere una valutazione sul giudizio severissimo di Dante, certo condizionato anche dal fatto che la rinuncia di Celestino aprì la strada all’elezione di Bonifacio, che il poeta, a torto o a ragione, anche per ragioni personali, giudicava essere stato un pessimo pontefice. Beninteso, se i famosi versi: Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, / vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto (Inf. IIII, 58-60) si riferiscono proprio a Celestino V, che non viene affatto nominato, e non a qualcun altro. Sulla questione vi è un’intera letteratura; noi personalmente, contrariamente all’opinione di Manfredi Porena e di decine di altri dantisti, saremmo inclini a vedere nel personaggio qui delineato (ma non ricordato per nome, in segno di sommo disprezzo) piuttosto che il mite e santo asceta del Monte Morrone, il procuratore romano Ponzio Pilato, che emise la sentenza capitale contro Gesù Cristo pur avendo dichiarato lui stesso di trovarlo innocente (Giov 19,6): Prendetelo e crocifiggetelo voi; io non trovo in lui nessuna colpa!
Un altro punto di capitale importanza è se Celestino, agendo come agì, vale a dire rinunciando ad agire come fece, fermo restando che il diritto canonico gliene lasciva socchiusa la possibilità, dato che già cinque prima lui, e due dopo di lui (Gregorio XII e Benedetto XVI), presero la stessa decisione, abbia pienamente rispettato non solo formaliter, ma anche sostantialiter, la propria missione di natura terrena e soprannaturale, per la quale vi è stata l’effusione dello Spirito Santo, come del resto in tutti i conclavi regolarmente convocati.
Si è provato a sciogliere questo nodo il letterato e avvocato Mattia Limoncelli (1880-1966), deputato del Regno d’Italia dal 1929 al 1933), il quale aveva le idee ben Chiare sulla parzialità del giudizio dantesco su Cestino , in un articolo nel quale sfodera tutta la sua dialettica forense (cit. in: Ettore Albino, Cultura d’oggi. Antologia italiana per le Scuole Superiori, Roma, Angelo Signorelli Editore, 1951, pp .699-703):
È un’altra vittima di Dante. Un verso e mezzo: «l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto».Ecco una epigrafe che non sente nemmeno il bisogno di un nome. Un verso e mezzo; scarsa misura: quanto basta tuttavia a legare alla colonna un uomo, e per secoli.
Ed è un sacrificio immeritato. Come deve comportarsi un uomo? Celestino cominciò col protestare esplicitamente di non sentirsi in grado di assumere così alto impegno. Una volta tanto, dunque, abbiamo lo spettacolo di un uomo che proclama alta sua insufficienza, e con ben altra sincerità di quella dantesca dice: «Io non Enea, io non Paolo sono».
Il compito, tra l’altro, è tale da dare i brividi anche alle stature meno comuni. A nulla varranno le sue poteste: è eletto. Quali furono le ragioni che indussero i votanti a non tener conto delle sue commoventi proteste? Nessuno potrebbe affermarlo. Ma, una volta eletto, che cosa avrebbe dovuto fare? Comandare? Non vi è cosa meno agevole quando ne manca l’attitudine. Obbedire, farsi strumento d’altri?
È un’alternativa dalla quale non è possibile uscire e, per vagliarla, bisogna anche sapere riportarla ai tempi burrascosi di Bonifacio VIII. Chi riconosce la propria insufficienza e si allontana, confessandola apertamente, e tempestivamente, vale più del presuntuoso che non l’ammette, vale più dell’indifferente che non si astiene – ecco la vera ignavia.
Comunque, ha almeno quella tragica superiorità che quasi varrebbe a ricollocarlo, in un certo senso, nell’equilibrio di una giustizia che non è di tutti. Abdicare, dimettersi: sono delle crisi, e il non averle non dipende sempre da superiorità di carattere. E l’averle, d’altra parte, è sempre segno di un tormento che vale a rendere degna di rispetto ogni soluzione.
Abdicare è debolezza, e peggio; ma solo quando dia una fuga pusillanime dal posto di comando, e quando il rimanervi significherebbe almeno la possibilità di resistere efficacemente.
Quando no, meglio andar via, dando modo ad altri di fare, o di far meglio.
trovar dunque un uomo, tra i più miti e benigni che si conosca, che una volta tanto non chiede, n on assilla, non scavalca, non si asside, non si inchioda ad una posizione – la più alta – Né resta imperturbato malgrado tutto, anzi, appena si avvede della incompatibilità determinatasi, recede, si allontana, vince anche le ostinate resistenze più o meno interessate, si allontana perché altri lo sostituisca, non significa no, aver trovato un ignavo, tutt’altro, significa invece essersi imbattuti in uno spirito equo e disinteressato, degno di essere portato per esempio e additato ben altrimenti che con quel verso che è un immeritato castigo.
È un esempio da mettere avanti agli occhi a tutti quelli che in periodi di arrembaggio si affollano a chiedere, quale che sia, il loro poto al banchetto della vita.
Celestino è proprio colui che più di ogni altro dante avrebbe dovuto rispettare perché è uno spostato non per sua colpa, voluto mantenere a quel posto da chi sperava di manovrarlo come un comodo strumento, ed anche per questo quel ritrarsi è una vera ribellione, non già ignavia. Ignavia sarebbe stato restare. Dante che giustamente aveva detto: «Se io vo chi rimane e se io rimango chi va», doveva comprendere che il motto di Celestino era precisamente l’inverso. Ed era rettitudine anche quella. È un’ingiustizia che proprio nel poema dantesco non regge, perché la Commedia è, sostanzialmente, una protesta appunto contro un vizio di distribuzione per cui nella vita nessuno è a posto: ognuno usurpa un merito, una Carica, un posto che non gli spetta. E Dante, offeso da tanto, ha voluto ’ab irato’ col suo poema compire una spaventosa revisione di valori. A modo suo, si intende, con asprezza e con passione, non di critico ma di uomo di parte, che di quegli sbandamenti portava le carni peste, riordinando e ricomponendo i valori offesi, slanciandosi turbolento e settario anche a costo di lasciarsi andare a peggiori eccessi, capovolgendo le strutture secondo una sua giustizia, tutta polemica, con la mano ancor trepida per l’altezza e la concitazione del battito cardiaco.
Collocarsi Davanti alla propria vita e alla propria fortuna per rendere stretto conto di se stessi, sollevare la pesante cortina dell’amor proprio fatta per alterare tutti i rapporti, guardare la realtà faccia a faccia senza attenuazioni e, invece di porre come presupposto l’impeccabilità, presumendo il contrario, ammettere l’errore, ricercarlo, accettarlo, giudicalo con la desolata aspirazione ad una giustizia superiore, non è da tutti.
È sapere soprattutto il conoscere l’ora in cui bisogna ritirarsi prima che altri lo imponga, e, peggio, prima che venga la giustizia muta delle cose a scacciarci senza attenuazioni. Non vi è agonia peggiore di quella dello sfasato, del superato ch si ostini ad afferrarsi ad un rottame. Gesti da naufrago. Oratori che hanno perduto il timbro – la voce del cantor non è più quella… - o, peggio ancora, lo “fren dell’arte”; scrittori che hanno perduto il nerbo, e danno spettacolo di pericolosi tentennamenti; glorie stagionate che ricorrono a compassionevoli artifici per farsi tollerare in quei successi di stima che sono i più miserevoli insuccessi.
Quanto dovremmo essere grati a quei tanti che conobbero la rara arte del trarsi in disparte a tempo! È questo appunto il contenuto di quel particolare privilegio cui accenna Menandro: «muor giovane colui che al cielo è caro». Gran mercé, se, andandosene in tempo, dalla scena della vita, non si ha nemmeno la possibilità di mendicare applausi o compatimenti. Amici, comoedia finita est.
Terminiamo qui la citazione, saltandone l’ultima parte, perché l’Autore si porta su un piano più specificamente estetico e sociologico, affermando che nelle controversie fra i dantisti sul giudizio di Celestino si verifica uno scontro di mentalità fra l’Ottocento e il Novecento, nel quale i “vecchi”, ancorati ai loro valori e modi di vita, non riescono a scorgere i fermenti della sensibilità nuova che si sviluppano nel corso della modernità avanzata. Lasciamo da parte questo discorso, che qui non c’interessa, e limitiamoci al caso specifico della rinuncia al papato di Celestino V, considerata sullo sfondo di una problematica etica più generale: se cioè non sia peggiore ignavia ostinarsi a reggere una responsabilità per la quale non si è adatti, o confessare apertamente la propria insufficienza e deporre senz’altro l’incarico.
A nostro parere, il limite del ragionamento di Mattia Limoncelli è di porre l’interrogativo in termini troppo generali, fin dall’inizio, quando pone la domanda: «Come deve comportarsi un uomo?»; perché qui, inutile girarci attorno, non stiamo parlando di un uomo qualsiasi, di un pubblico funzionario, e neppure di un sovrano, di un dittatore, di un condottiero: stiamo parlando del vicario di Cristo, dal quale, al momento della elezione, ha ricevuto l’effusione dello Spirito Santo, che è un mezzo straordinario atto a sostenerlo in ogni difficoltà e tribolazione del suo sacro ufficio. Inutile anche nascondersi il fatto che una discussione sulla liceità, o meglio sulla opportunità morale delle dimissioni di Celestino V, fatta nel momento storico che stiamo vivendo, non può non far pensare agli eventi del 28 febbraio 2013, a quella mestissima cerimonia di addio, a quell’elicottero che si allontanava sorvolando la Città Eterna. E naturalmente a tutto quel che è successo dopo, a questi dodici anni drammatici durante i quali molti cattolici si sono domandati con angoscia e sgomento chi sia il vero Papa; o, peggio ancora, se la Chiesa cattolica abbia ancora un Papa, se abbia una dottrina, una morale, una liturgia.
«Chi riconosce la propria insufficienza e si allontana, confessandola apertamente, e tempestivamente, vale più del presuntuoso che non l’ammette, vale più dell’indifferente che non si astiene», dice il Nostro, nella foga del discorso. Ed è vero. Ma qui stiamo parlando del Papa, non di un uomo qualunque. Eppure non è un uomo anche lui? Certo che lo è; ma ha ricevuto un incarico e un privilegio incommensurabile, non tanto dal voto dei singoli cardinali, ma da una precisa chiamata di Dio, che mediante quel voto si è espressa. La Chiesa è il corpo mistico di Cristo; Cristo è il capo del corpo; il Papa è il vicario di Cristo.
Ora, non c’è dubbio che possano presentarsi delle circostanze per le quali il Papa non è più idoneo a governare la Chiesa: infermità di corpo o di mente, rapimento, torture possono ledere gravemente la sua libera volizione. D’altra parte, Gesù Cristo non si è sottratto alle torture, ai maltrattamenti, non ha mai espresso il desiderio di scendere dalla croce, né che gli fosse tolta la corona di spine dalla fronte. E nessun servo è superiore al suo padrone (cfr. Matteo, 10,24). Gesù ha anche detto: (Giov. 15,20): Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Ed è evidente che tanto più eminente è la posizione che un sacerdote occupa nella Chiesa e quanto più egli si sforza di somigliare al divino modello, tanto maggiore sarà il pericolo delle persecuzioni. Ma Celestino, dice il Limoncelli, aveva protestato a gran voce di non sentirsi degno d’essere eletto. Tali proteste non le abbiamo udite dalla voce di Ratizinger, prima che fosse proclamato Papa col nome di Benedetto XVI.
Qualcuno potrebbe chiederci: cambierebbe qualcosa se emergesse un documento risolutivo, ad esempio il testamento di Benedetto, dal quale risultasse chiaramente che il Conclave del 2013 era truccato e che la sua rinuncia gli era stata imposta in vista di quel fine? Sarebbe canonicamente valido il pontificato di Francesco? Sicuramente no: ma la Chiesa, sulla base di un fatto nuovo e così sconvolgente, dovrebbe esprimersi in maniera univoca ed inequivocabile, ripartendo da quel 2013...
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