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VIDEO - Pizzaballa: «Anche in mezzo alla guerra c'è una speranza segno di vita»

cardinale pierbattista pizzaballa david bozzetto lorenzo ornaghi premio cultura cattolica di bassano del grappa May 07, 2024

 

Pubblichiamo gli appunti, non rivisti dall’autore, dell’intervista al cardinale Pierbattista Pizzaballa in occasione della consegna, giovedì 2 maggio, del 41° Premio Internazionale Cultura Cattolica (qui le motivazioni).

Al Teatro Remondini di Bassano, introdotto dal professor Lorenzo Ornaghi, presidente della giuria, e da David Bozzetto, presidente della Scuola di Cultura Cattolica, il Patriarca di Gerusalemme dei Latini è stato intervistato dalla giornalista Monica Maggioni, già presidente della Rai e direttrice del Tg1.

Come sta vivendo da dentro un momento che è una sfida in ogni istante? Come vive questa lacerazione insieme alle persone con cui costruisce quotidianamente i suoi percorsi?

La lacerazione tra israeliani e palestinesi non è una novità, anche se l’intensità è diversa. C’è lacerazione anche all’interno dei rispettivi popoli, la società israeliana era lacerata già prima degli episodi del 7 ottobre e le manifestazioni dimostravano una tensione crescente nel paese; e anche da parte palestinese la frammentazione era già lì presente. Quello che è accaduto dopo il 7 ottobre è che tutto quello che era “a fuoco lento” è esploso in maniera molto violenta, inaspettata, e che dunque ha creato un solco ancora più profondo tra israeliani e palestinesi. Tutti, anche i movimenti pacifisti più aperti si sono sentiti traditi e colpiti.

La società israeliana si è scoperta fragile e vulnerabile in maniera come mai prima d’ora creando un grande trauma perché Israele era nato come luogo dove gli ebrei sono a casa e sono al sicuro e adesso è emerso che non sono al sicuro. Si sapeva che c’era tensione ma questo è qualcosa che ha fatto prendere coscienza in maniera profonda, molto drammatica, con quello che è accaduto.

Dall’altro lato, anche la reazione – quello che è accaduto e sta accadendo a Gaza – ha approfondito ancora di più un solco di incomprensione, di sfiducia, anche di odio, da parte dei palestinesi e tutto questo ha creato un contesto che, in un certo senso, è nuovo perché è la prima volta che le due società e il Paese in generale si trovano senza chiare prospettive. Quello che rende tutto ancora più difficile è che c’è lacerazione, c’è sfiducia, c’è tanto odio come abbiamo visto, ma per la prima volta non si sa come uscirne. La guerra finirà, è questione di tempo, però nessuno sa definire come sarà il dopo, non solo dal punto di vista politico che è già un problema grosso, ma anche dal punto di vista delle relazioni.

Prima, fino al 7 ottobre, buona parte dei palestinesi della Cisgiordania andava lavorare in Israele. Erano quasi duecentomila che andavano a lavorare tutti i giorni in Israele, una risorsa anche dal punto di vista economico importante per la Palestina. Adesso, a parte pochissimi, i permessi sono tutti cancellati e molto probabilmente non ritorneranno come prima perché gli israeliani non vogliono più avere i palestinesi in mezzo a loro, non vogliono più avere [tra loro] il cameriere, chi si occupa del ristorante o degli alberghi. Non li vogliono più tra loro, non c’è più fiducia – ahimè – anche a causa di discorsi molto difficili da parte di alcuni ministri un po’ estremisti. Ce n’è uno che ha detto “non vogliamo che le nostre mamme partoriscono insieme alle mamme degli altri”, per dire. Sono un segno di come la lacerazione è profonda, ma non si riesce a capire come e su cosa costruire il dopo.

Se non si riesce a capire su che cosa costruire il dopo, su che cosa invece si sta costruendo la sopravvivenza quotidiana, l’esistenza di tutti i giorni, come lo si costruisce l’oggi prima del domani?

La vita va avanti, non è che ti devi fermare, non ci si può fermare sicuramente. Poi, un conto è essere a ottobre e un conto è essere a maggio. La vita fino a Natale era ferma, era tutto sospeso, in un certo senso. Naturalmente si mangiava, si beveva e si dormiva più o meno, però le relazioni, la vita, il lavoro, era tutto sospeso. È chiaro che la vita va avanti, e quindi un poco alla volta si riprende e ci si abitua un po’ a tutto, a questo nuovo modo di vivere, quindi le cose si sono riprese, le emozioni hanno cominciato a prendere una certa distanza dalle situazioni – anche se non troppo devo dire – però è come se ci fosse una certa separazione tra corpo e anima, cioè si vive della vita ordinaria perché bisogna vivere, bisogna andare a lavorare, i ragazzi devono andare a scuola e così via, però è come se mancasse quell’anima che porta avanti le cose. È un po’ come se fosse ancora sospesa e questo rende il clima naturalmente molto pesante nella vita ordinaria. C’è tanta paura sicuramente, è un presente faticoso, molto faticoso.

C’è un presente ancora più faticosa degli altri, penso alla comunità cristiana dentro Gaza. La loro esistenza quotidiana in questo momento com’è, se c’è? Quali sono i vostri collegamenti, i vostri contatti? Ricordo, quando ci siamo visti a dicembre, che tenevate ancora un filo con le persone dentro la parrocchia. Ecco, come si sta vivendo lì dentro adesso?

Anche lì c’è stato un percorso da ottobre ad oggi. Prima della guerra tutti i cristiani erano 1.017, adesso sono 462 nel compound cattolico e 208 in quello ortodosso. Gli altri sono morti o sono riusciti ad uscire. Per uscire devono pagare cinquemila dollari a testa e naturalmente non tutti li hanno.

I nostri si trovano nella parte nord della Striscia di Gaza, che è la parte che dovrebbe essere stata evacuata ma non è stata evacuata, non del tutto almeno. Ci sono in tutto nella parte nord circa trecentomila persone. I nostri hanno perso tutto. La parte nord è quasi totalmente rasa al suolo, quindi hanno perso casa, le infrastrutture sono distrutte. I nostri compound cattolico e ortodosso, che sono attaccati l’uno all’altro, sono stati risparmiati grazie a un coordinamento mai facile. È stato molto difficile per molto tempo far arrivare anche i viveri. Meno male che il parroco di allora era stato previdente e aveva un po’ di riserve. Insomma, razionando qui e là si è riusciti. Adesso va un po’ meglio dal punto di vista del cibo, mancano i medicinali e l’acqua è sporca. Un terzo [della popolazione] ormai è già malato di epatite, per cui la situazione è sicuramente molto pesante e molto difficile.

Lei, parlando con loro, riesce ancora a usare la parola speranza?

È molto difficile parlare di speranza in un contesto così lacerato, così difficile. C’è speranza e speranza. La speranza che viene da fuori è difficile vederla, bisogna essere onesti. È tutto distrutto, l’infrastruttura è distrutta, non c’è acqua, non c’è elettricità, non c’è comunicazione, non ci sono fognature e non ci sono scuole. Ci vorranno anni per ricostruire, nel frattempo cosa fanno e dove vanno? Adesso dormono nelle aule e nelle classi, per cui è chiaro che è molto difficile dare una speranza concreta sulle soluzioni immediate di questa situazione, questo è evidente.

Però c’è una speranza che è un atteggiamento interiore su come stare dentro quella situazione, come viverla, come sostenersi l’un l’altro. Non è il momento della speranza di grandi cambiamenti, è il momento delle piccole speranze che nascono dalle relazioni, dall’amicizia, dal fare qualcosa per gli altri e dall’organizzarsi.

Quello che ho detto loro è che non si può stare sempre lì chiusi dentro ad aspettare e a chiedersi se oggi cadono le bombe o non cadono le bombe. Bisogna cominciare a fare qualcosa, tenersi occupati. C’è tanto bisogno, ci sono alcuni medici tra loro, ci sono alcuni infermieri e insegnanti. Allora cominciamo a fare qualcosa, ad aiutarci e sostenerci. Vedo che su questo la comunità c’è, quindi questo crea quelle piccole speranze che sono segni di vita e di partecipazione che aiutano a vivere quel momento.

La vorrei portare indietro nel tempo, perché ovviamente una storia così drammatica ci schiaccia tutti sul presente, invece lei stasera riceve un Premio importante nel quale si specchia anche la sua storia personale, il suo rapporto con quel pezzo di mondo perché da trentacinque anni la sua esistenza avviene lì. Torniamo a trentacinque anni fa: il rapporto con Gerusalemme come si costruisce e come diventa poi determinante nel suo percorso?

Io non volevo andare a Gerusalemme, avevo chiesto di studiare Sacra Scrittura e l’idea era di andare a Roma al Pontificio Istituto Biblico, ma il provinciale di allora decise che si studia la Bibbia a Gerusalemme. “Tu vai a Gerusalemme”, punto e basta, fine della discussione. Così è nata la mia vocazione per Gerusalemme.

L’obbedienza richiede grande libertà, quindi sono andato lì, sono arrivato il 7 ottobre del 1990; fu il giorno in cui ci fu uno scontro tra israeliani e palestinesi sulla spianata del Tempio – io ero alla prima stazione della Via Dolorosa – e alla vigilia della guerra del Golfo. Quindi quello è stato il mio battesimo, però poco alla volta sono entrato dentro lo stile di Gerusalemme.

Quello che è stato per me il punto di cambiamento importante è stato quando il provinciale di allora mi mandò a studiare all’Università ebraica. Io ho fatto il seminario minore, sono entrato a 11 anni tra i frati sempre dentro un contesto – diciamo così – di culla ipercattolica. Quando poi fui mandato all’Università ebraica ero l’unico cattolico, l’unico cristiano dei miei compagni di classe che erano tutti ebrei. E fu un’esperienza difficile all’inizio, però molto avvincente, molto bella. Studiavo Scrittura, l’Antico Testamento e i miei compagni di classe, tutti ebrei religiosi, avevano questo “pollo” strano in mezzo a loro, però nacquero amicizie e relazioni molto belle e nacquero anche le loro domande molto belle su Gesù.

Poi, tra l’altro, si studiava anche il siriaco e per studiare siriaco si leggeva il Nuovo Testamento in siriaco e allora dicevano: “Adesso l’abbiamo tradotto e ce lo devi spiegare”. Fu un momento molto bello e capii il valore vero del dialogo interreligioso perché io, come ho detto, sono nato nella bassa bergamasca dove si era cattolici prima di nascere: sono andato in seminario minore a 11 anni, sono sempre stato un “pollo di allevamento” si diceva una volta. Per cui tutta la mia esperienza di Gesù, la mia relazione con Gesù, le mie domande su Gesù, erano quelle di un contesto dove Gesù nasce, muore e risorge.

Quando poi i miei compagni di classe ebrei che non sapevano nulla mi facevano le domande su Gesù, avevo capito che le mie risposte non dicevano nulla a loro, non riuscivano a capire, e poco alla volta fui costretto a ripensare, a rileggere la mia relazione con Gesù. Quegli ebrei che non conoscevano Gesù e che non lo riconoscevano come Messia mi hanno restituito un Gesù che non conoscevo.

Come si innesta in tutto questo la sua passione per l’archeologia?

Quando si va in Terrasanta il Vangelo, la storia, i luoghi non sono una realtà astratta. Quando qui si parla di Gerusalemme, di Betlemme, di Nazareth, di Cafarnao sono luoghi che segnano la vita di Gesù e finisce lì. Invece quei luoghi sono luoghi precisi, concreti e diventa chiara una cosa che dai per scontata e alla quale non pensi di solito, e cioè che senza il luogo non c’è l’evento. Il luogo è essenziale per tenere il legame con l’evento, e allora se c’è il luogo devi andare a vederlo; e poi hai bisogno di vedere come quel luogo è stato vissuto. Quell’evento è un evento reale, non è una narrazione semplicemente e se è reale lo devo toccare. L’archeologia cristiana è quella che ti consente di tenere quel legame tra ciò che credi, ciò che vivi, e ciò che tocchi e che vedi.

Il mondo si sta spaccando in due tra chi usa la parola pace e che la teorizza e chi dice che è inutile parlare di pace. Invece là in mezzo ci sono strade molto più complesse. Allora forse Gerusalemme e quella sua complessità che veniva evocata prima è un posto non male per parlare di pace.

Io sono convinto che il cuore del mondo e lì è il cuore della vita del mondo è lì, per cui almeno il nostro mondo occidentale è legato a quella città culturalmente, storicamente, religiosamente. Lo si voglia o no e che si abbia o no fede, comunque noi siamo legati a quella città e a ciò che quella città rappresenta.

La pace – in ebraico shalom e in arabo salam, hanno la stessa radice – significa integrità, essere completo, pieno. Quindi la pace ha sempre bisogno di un approccio integrale alla vita, quindi alla politica, all’economia, alla formazione, alla fede, alla spiritualità. Sono tutte parte di una visione integrale e se manca solo qualcuna di queste non c’è la pace, non c’è la completezza. A Gerusalemme, con le enormi diversità che ci sono, con le tante ferite che la città porta ma anche con la tanta ricchezza che c’è, tutta questa complessità viene fuori e comprendi che questo bisogno di fare unità, non uniformità ma unità, cioè di tenere insieme tutti questi pezzi, richiede tanta energia e tanta pazienza. Perché dietro ogni realtà e ogni persona c’è una storia, ci sono ferite, ci sono situazioni complesse, ci sono letture diverse della storia e della memoria, concezioni diverse di perdono. Ecco, tutte queste cose a Gerusalemme sono realtà concreta, sono tutte realtà però che appartengono al campo semantico della pace, che è molto complessa.

Quello che vedo nel mondo adesso, penso a quello che sta accadendo nelle università e così via, non è una tifoseria di destra o sinistra. L’università è il luogo dove il confronto anche acceso e le opinioni diverse si devono esprimere in maniera argomentata. È il luogo dove il confronto deve manifestarsi in tutta la sua ricchezza, non il luogo delle barriere o delle esclusioni. Nessuno riesce ad avere il monopolio su Gerusalemme. Gerusalemme ti insegna che non puoi fare nulla senza l’altro, per cui è una scuola di pace incredibile.

Saluto finale del cardinale Pizzaballa

La nostra speranza è Cristo risorto. Visto che abbiamo parlato di Gerusalemme e si parla di speranza, in questo periodo sto stressando la mia diocesi con gli ultimi due capitoli dell’Apocalisse, che parla della Gerusalemme che voi chiamate Gerusalemme del cielo, che però scende giù, che è anche l’immagine della Chiesa. Lo trovo molto significativo, andate a rileggerlo, perché esprime secondo me molto bene la vocazione della Chiesa di Gerusalemme e della Chiesa in generale.

Innanzitutto Gerusalemme è una città che non ha il mare, ma ha il cielo. Nell’Apocalisse il mare è il luogo del male con la M, ma il cielo è il luogo dove abita Dio, quindi è una città abitata da Dio. E poi dice che in quella città non c’è il tempio, non ci sono luoghi di culto, ma c’è l’Agnello. Il tempio è l’Agnello, è la Pasqua, cioè dare la vita per amore e poi risorgere a nuova vita. E non c’è il sole: la luce viene dall’Agnello. Noi non vediamo la luce, vediamo perché c’è la luce. Allora avere una lettura pasquale della vita della città di Gerusalemme, della vita della Chiesa, della vita del mondo, leggerla nella luce pasquale, questa è la speranza. L’Agnello è colui che dona la vita per amore. Ed è una città che ha le mura bellissime, ornate, con le porte che però sono sempre aperte, perché c’è sempre la luce. Quelle mura non sono lì per difendere, perché sono sempre mura aperte. A cosa servono allora? Servono per definire coloro che vogliono vivere la luce dell’Agnello da quelli che invece vogliono stare fuori. E questa città è sempre aperta e accogliente.

Questi sono solo alcuni degli aspetti e credo che esprimano molto bene la nostra vocazione come Chiesa di Gerusalemme e come Chiesa in generale di essere abitati dalla presenza di Dio, prima di tutto. Quel Dio che poi per noi concretamente è visibile nell’Agnello, cioè nella luce pasquale, in colui che dona la vita e che ti aiuta a vedere tutto in quella luce. È la luce di un risorto, cioè di uno che ha vinto la morte in tutte le sue forme e ha il cuore aperto a tutti i popoli, le porte sono aperte per tutti.

Allora noi siamo chiamati a Gerusalemme come anche a Bassano, come qualsiasi altra parte del mondo, ad essere abitati da questa presenza pasquale che deve alimentare la nostra vita, le nostre relazioni, il nostro modo di guardare l’altro, il nostro modo di guardare la vita del mondo e guardare anche il presente. Non possiamo permettere che tutte queste situazioni di male schiaccino e chiudano il nostro orizzonte dentro questa realtà. Non è possibile. Se veramente crediamo che Cristo è risorto allora dobbiamo anche essere capaci di vedere questa resurrezione e la resurrezione i Vangeli non la spiegano. Ci sono solo gli incontri con il risorto. Ancora oggi è possibile incontrare tantissime persone e quando le incontri capisci e vedi in quelle persone il risorto. Finché ci sarà ancora una sola persona anche a Gerusalemme come in qualsiasi altra parte del mondo che vive in quel modo, c’è speranza.

FONTE : TEMPI

 

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